ATTIVAZIONE SOMATICA
L’ansia si manifesta con sintomi ben riconoscibili: tachicardia, sudorazione, iperventilazione (“fame d’aria”), tensione muscolare, vertigini, sensazione di stare per morire o impazzire, etc.
Alcune tecniche comportamentali permettono di ridurre l’attivazione che si accompagna ad uno stato di ansia.
Una di queste è la tecnica del respiro lento: utilizzando la respirazione diaframmatica, si insipra e si espira ad un certo ritmo, regolando così il rapporto ossigeno/anidride carbonica nel nostro corpo. Quando siamo agitati, infatti, tendiamo ad iperventilare, a cercare cioè di incamerare più ossigeno di quanto, in realtà, siamo in grado di scambiare all’interno dei nostri polmoni.
Altre tecniche sono utili prima dell’esposizione ad un evento che ci provoca ansia (ad es., il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson).
CREDENZE O CONVINZIONI
Pensare in maniera rigida (ad es., “Non devo assolutamente…“), inflessibile, prefigurarci scenari catastrofici (ad es., “Se capita X, sarà una tragedia“) e irreparabili, agiterebbe chiunque, siete d’accordo?
Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, agire sui contenuti disfunzionali della nostra mente, sperimentando forme più flessibili di pensiero, ha l’effetto di regolare il tono emotivo. Questo processo si chiama ristrutturazione cognitiva, ed è un pilastro fondamentale della CBT.
Vi propongo un veloce esempio, per capire di cosa parliamo. Fate attenzione a questi due pensieri:
“Non posso assolutamente permettermi di andare in ansia a quella festa, altrimenti penseranno di me che sono pazzo!“
“Sarebbe bello non agitarmi domani alla festa, ma se anche dovesse capitare potrei tollerarlo/non è detto che gli altri pensino che sono pazzo“
Quale pensate sia quello più funzionale? 🙂
RIMUGINIO
Di fronte ad un problema è decisamente utile arrovellarsi per risolverlo. Questo tipo di pensiero si chiama “concreto”: è diretto all’obiettivo, ha termine una volta che la soluzione è stata identificata, ha il tipico “flow” dei processi di problem solving, etc.
Il rimuginio, invece, è molto diverso: non finisce mai per soddisfarci (perchè nessuna conclusione è giudicata sufficiente ad interrompere il rimuginio), è negativo, catastrofico, astratto e contribuisce per lo più ad agitarci e ad esaurire ogni nostra risorsa cognitiva. Ah! E’ un processo di mantenimento dell’ansia.
Ridurre al minimo il tempo che passiamo rimuginando è uno degli obiettivi della Terapia Metacognitiva di Adrian Wells, una recente ed efficace derivazione del cognitivismo.
Pensate ora all’ultima volta che avete rimuginato e chiedetevi:
- Rimuginando ho risolto il problema?
- Com’è cambiato il mio umore da quando ho iniziato a rimuginare a quando ho terminato?
ATTENZIONE SELETTIVA
Di fronte ad una minaccia è bene essere attenti: valutare ogni possibile fonte di pericolo potrebbe infatti salvarci la vita. L’ansia, tuttavia, ha spesso poco a che fare con situazioni dove la nostra sicurezza è in pericolo. Più spesso, invece, temiamo il giudizio altrui, le figuracce, un brutto voto, un due di picche di un potenziale futuro partner, etc.
Nonostante ciò, nei millenni che ci separano dai nostri (estinti) antenati, il nostro modo di fronteggiare le minacce non è cambiato: scandagliamo il campo visivo alla ricerca delle potenziali minacce (ad es., il risolino dei nostri colleghi, il sopracciglio inarcato del professore all’università di fronte ad una nostra risposta, etc.), rievochiamo tutti i ricordi negativi associati alla situazione che stiamo per fronteggiare (per trovare le situazioni che più somigliano a quella attuale e trovare soluzioni utili), consideriamo come salienti solo alcuni particolari che confermano le nostre paure, etc.
Come avrete notato questo modo di analizzare il mondo ha un costo: ogni particolare non minaccioso, ogni ricordo positivo, ogni prova che sconferma le nostre teorie è tralasciata. Ergo, tutto sembra suggerirci che a catastrofe è imminente.
Fortunatamente, divenuti consapevoli di questo “filtro”, possiamo agire per cambiare.
EVITAMENTO
Quando abbiamo paura di qualcosa, una delle nostre prime risposte può essere evitare. Alla lunga, però, evitare una situazione che prematuramente giudichiamo dannosa o catastrofica (vedi la famosa festa dell’esempio), ci induce a pensare che realmente lo sia, che le nostre capacità/risorse per fronteggiarla siano scarse e la motivazione ad affrontarla si riduce.
Parte della terapia, quindi, comprende delle esposizioni: piccoli esercizi comportamentali, cioè, in grado di metterci a contatto con le situazioni temute, al fine di “dimostrarci” che tanto pericolose alla fine non sono o che le risorse a nostra disposizione sono sufficienti per farvi fronte.
STORIA DI VITA
Ogni pensiero relativo a noi (ad es., “sono inadeguato/diverso/meno degli altri“) deriva da esperienze del nostro passato. Ciò che intendo è che in qualche momento della nostra vita, di fronte ad alcuni eventi, è stato per noi sensato definirci in un certo modo, imparare a pensarci così.
Nel presente, però, spesso e volentieri continuare a ripeterci che siamo inadeguati non ci aiuta (sopratutto se dobbiamo affrontare delle sfide!). Così, attraverso la terapia, lavoriamo per acquisire maggiore consapevolezza del nostro passato e della funzione che ha avuto nella nostra formazione come individui. Successivamente, si opera insieme per fronteggiare i pensieri relativi a noi in maniera più funzionale.
SCHEMI INTERPERSONALI
Ovvero i “copioni” con i quali ci muoviamo nell’oceano delle relazioni sociali, originatisi dalle nostre esperienze di vita, con la funzione di aiutarci a predire le reazioni altrui.
La nostra ansia può dipendere anche dalle nostre interazioni con gli altri. Ricostruire il nostro tipico modo di entrare in relazione con qualcuno può essere estremamente efficace per rintracciare, insieme al terapeuta, nuove modalità meno ansiogene di muoversi nel mondo
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